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“L’Occidente è vittima del suo senso di colpa”, intervista ad Alexandre Del Valle

Parla il politologo e saggista francese, già consulente di Nicolas Sarkozy e autore de “Il complesso occidentale, Piccolo trattato di decolpevolizzazione” (Paesi edizioni 2019). In cui spiega che “la minaccia più grande per la nostra società proviene dalla sua debolezza interna”



Professor Del Valle, cosa intende per “complesso occidentale”?


Intendo l’incapacità delle società e delle autorità dei Paesi occidentali di reagire di fronte alle minacce, in particolare quelle che mettono a rischio la sicurezza dei cittadini. Questa situazione, che oggi stiamo vivendo in tutta Europa, è il prodotto della convergenza tra diversi elementi, tra cui: la propaganda culturale dell’estrema sinistra, l’ideologia del consumo, l’influenza della nuova chiesa cattolica post-conciliare e la presenza dell’islam radicale.


Andiamo per ordine: cosa intende per propaganda culturale dell’estrema sinistra?


Intendo il cosiddetto marxismo culturale presente nelle società occidentali che predica l’odio verso se stessi. Le origini di questo sentimento sono antiche, risalgono addirittura ai tempi dell’illuminismo francese e dell’invenzione dell’enciclopedia da parte di Voltaire, Rousseau e Diderot. In funzione anticattolica essi svilupparono un pensiero di odio verso la religione che esprimevano attraverso l’odio per la propria società, che era profondamente religiosa. Questa mentalità si è progressivamente sviluppata e ha fatto un salto di qualità dopo la seconda guerra mondiale facendo leva sul fortissimo e inevitabile senso di colpa degli occidentali verso gli ebrei. Nel 1952 il filosofo tedesco- americano Leo Strauss parlò di “reductio ad hitlerum”, definendo così la strumentalizzazione da parte della sinistra internazionale della forte carica emozionale causata dalla Seconda Guerra Mondiale, che generava di nuovo un odio verso se stessi. Questo processo è stato poi portato all’estremo da parte della Scuola di Francoforte, in particolare da Juergen Habermas, secondo cui l’unica possibilità per i tedeschi di liberarsi dal retaggio nazista è quello di eliminare ogni forma di identità per aderire a valori astratti e illuminati, il cui insieme è chiamato patriottismo costituzionale. Secondo questa linea di pensiero è doveroso eliminare ogni identità radicata a favore di un nuovo uomo unidimensionale e liquido che in quanto tale deve accettare passivamente la liquidità economica e sociale che lo circonda. Chi non la accetta, sostenendo per esempio la necessità di difendere le frontiere, viene immediatamente tacciato di essere un nazista o un razzista. E qui arriviamo al secondo elemento: l’ideologia del consumo.


Lei vede un legame tra la mancata difesa delle frontiere e l’ideologia del consumo?


Sì, sia il consumismo che il marxismo culturale vogliono abbattere le frontiere perché condividono la stessa ideologia di fondo che l’economista americano Benjamin Barber chiama macworld (mondo del McDonald’s ndr) e che Diego Fusaro definisce turbocapitalismo. Si tratta di un’ideologia diffusa soprattutto da alcune elites e da alcune grandi società anglosassoni che per meglio vendere i propri prodotti promuovono un’operazione antropologica sugli uomini occidentali col fine di trasformarli in meri consumatori internazionali. Per fare questo è necessario rimuovere tutti gli ostacoli al consumo, a partire dalle radici e dai confini, esattamente come chiede il marxismo culturale. Dunque consumismo e marxismo culturale si mischiano oggi e in funzione anti-Stato nazionale colpevolizzano chiunque difenda le frontiere, la propria cultura e la propria civiltà. Purtroppo negli ultimi anni si è unita a loro una parte consistente della chiesa cattolica.


In che modo la chiesa cattolica è arrivata secondo Lei a favorire il complesso occidentale?


Fin dalle sue origini la dottrina cristiana si fonda su un sano e giusto senso di colpa per i peccati compiuti dagli uomini. Non è un caso che l’Occidente cristiano sia l’unica civiltà al mondo che abbia fatto autocritica. Negli ultimi decenni, però, gran parte della nuova chiesa postconciliare si è fatta influenzare dall’ideologia del 68 – altro momento di sintesi tra consumismo e marxismo culturale – e ha iniziato a predicare l’espiazione delle colpe indicando negli uomini occidentali i corresponsabili con i crimini del passato, senza fare distinzioni geografiche o temporali. Ciò si traduce con la linea filo-immigrazione del Papa mettendo anche sotto scacco i progressi delle democrazie occidentali, che si differenziano dal tribalismo proprio perché in esse le colpe sono individuali e non collettive. Non è un caso che questo approccio sia oggi condiviso da molte persone originarie di regioni in cui l’idea di clan e di tribù è predominante rispetto a quella di Stato nazionale.


Si riferisce alle persone musulmane?


Mi riferisco all’islamismo radicale presente in Europa. A quell’islam non terroristico che utilizza questo senso di colpa per promuovere l’islamizzazione della società.

Ha in mente l’islam politico dei Fratelli Musulmani, che in Europa sono il gruppo più presente e organizzato?

Ho in mente gli atteggiamenti di molti leader dei musulmani europei che fanno riferimento ai Fratelli Musulmani e alla loro ideologia. Essi fanno leva continuamente sulla reductio ad hitlerum paragonando spesso la situazione dei musulmani europei con quella degli ebrei perseguitati dai nazisti e pretendono che per riparazione venga concessa una loro maggiore rappresentazione nelle istituzioni.


Mi faccia degli esempi concreti...


Penso a Tarik Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani. Quando veniva invitato in televisione, a Oxford, all’Onu, all’Unione Europea e con il sindaco di Londra esprimeva idee diverse rispetto a quando parlava in arabo. Penso ai leader musulmani in Italia negli anni 90, persone generalmente dei Fratelli Musulmani cacciate dalla Siria per le loro idee radicali.


Come hanno fatto i Fratelli Musulmani a raggiungere una considerazione così importante in Europa?


Il momento di svolta è avvenuto nel 2001 quando i Fratelli Musulmani hanno condannato al Qaeda e l’attentato alle Torri Gemelle, riuscendo a presentarsi come moderati e a diventare così gli interlocutori privilegiati di una certa sinistra terzomondista e antirazzista. Questo dialogo ha iniziato a fare loro concepire l’Europa come terra di conquista non attraverso il terrorismo (dar al harb), che condannano, ma attraverso il proselitismo (dar al dàwwa). Se l’infedele, pensano, non solo non ci contrasta ma addirittura parla con noi e ci aiuta allora non dobbiamo combatterlo ma conquistarlo attraverso una lenta sottomissione pacifica. Si tratta di un islamismo eversivo non terroristico che si infiltra nella società civile con la complicità dell’ideologia del multiculturalismo.


Ai Suoi occhi la crescita dell’islamismo radicale è oggi più forte laddove il senso di colpa per il passato è più forte?


Certamente. Non è un caso che uno dei Paesi oggi più colpiti dall’islamismo è la Germania, dove la reductio ad hitlerum, la colpevolizzazione e le conseguenze dell’egemonia culturale della Scuola di Francoforte sono più forti. Pensiamo solo al fatto che durante la scorsa legislatura una ministra ha detto che non esiste una cultura tedesca e che l’unica cosa che accomuna i tedeschi è la lingua. La grande debolezza identitaria che ne consegue rende la società tedesca incapace di assimilare l’integrazione. Oggi vediamo come le terze e le quarte generazioni di turchi o arabi in Germania parlino tedesco eppure non si sentano minimamente tali. Gli altri Paesi in cui la situazione è particolarmente grave sono Francia, Belgio e Svezia dove in alcuni luoghi non possono suonare le campane ma può cantare il muezzin.


Ritiene che sia doveroso e possibile superare questo senso di colpa anche per un Paese come la Germania, la cui identità di oggi si fonda proprio sulla memoria dell’Olocausto?


Ritengo che sia necessario capire che il doveroso ricordo per l’Olocausto non sia inconciliabile con la difesa dei propri valori. Che la lotta ai neonazisti non giustifichi la repressione dei partiti identitari che vogliono difendere i valori del proprio Paese. Ritengo che la colpevolizzazione patologica conduca all’autodistruzione.


Come dovrebbe reagire concretamente la politica dei Paesi europei per superare il complesso occidentale?


Naturalmente serve adottare misure di sicurezza che scongiurino le minacce. Dal punto di vista geopolitico sarebbe importante prestare molta più attenzione ai propri legami con i Paesi polo dell’islamismo radicale come Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Pakistan. Prima ancora è però necessaria la promozione di una nuova politica culturale senza di cui il resto risulterebbe in ultima istanza inutile.


In cosa deve consistere questa nuova politica culturale?


Innanzitutto nell’adozione di una nuova strategia di comunicazione da parte dei governi. Dobbiamo smetterla di chiamare “razzisti” o “nazi-fascisti” tutti coloro che ritengono sia giusto proteggere l’identità nazionale e la famiglia e che vogliono controllare le frontiere. Le nazioni dovrebbero invece promuovere un’immagine valorizzante e positiva di se stesse, così da potere coinvolgere e mobilitare i propri cittadini nelle battaglie importanti per la nostra sicurezza, per esempio contro il totalitarismo islamico. L’azione del pessimista professionale, che consiste nello scoraggiare il suo popolo spiegandogli che la propria civiltà non ha futuro e che la loro nazione è sconfitta già in partenza, costituisce anch’essa una forma di “guerra delle rappresentazioni” che viene combattuta contro l’Occidente.


Come ultima cosa, ci indichi quali sono le minacce più imminenti che l’Occidente dovrà secondo Lei fronteggiare nei prossimi anni?


La fonte di pericolo più grande per le società europee non risiede nelle minacce esterne, per quanto esse siano reali – come la concorrenza sleale sino-asiatica, le idee anti-egemoniche delle potenze emergenti, l’immigrazione incontrollata e il totalitarismo islamista – bensì nell’ideologia dell’odio di sé. Le nazioni libere dai complessi e dunque con autostima, valori e identità più forti, mostrano di sapere fronteggiare meglio le sfide poste dal mondo multipolare. Sfide che, ne sono certo, si vincono solo curando la propria depressione identitaria e seguendo una terapia globale di discolpa, che è la chiave per acquisire tanto la stima verso sé stessi quanto il rispetto degli e per gli altri.

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