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Il complesso occidentale. Piccolo trattato di decolpevolizzazione – Invito alla lettura

Un’ottima opportunità quella offertaci il 17 giugno u.s. dalla Fondazione Lepanto di ascoltare ed incontrare Alexandre Del Valle, autore di Il complesso occidentale. Piccolo trattato di decolpevolizzazione, recentemente pubblicato da Paesi edizioni. Non solo per la sua chiarezza espositiva e disponibilità personale, ma perché il tutto si è tradotto in un evento di «metapolitica», quale si prospetta nella conclusione del testo, come azione di «resistenza pacifica e di dissidenza intellettuale» dal basso; condizione queste per la formazione di nuove élites che, abbandonando altresì «l’universalismo arrogante dell’occidente» guerrafondaio, siano radicate orgogliosamente nelle realtà nazionali e nell’identità cristiana.



Che proprio questo è il complesso occidentale:


«una patologia sociale di tipo mortale. Infatti l’ideologia dell’odio di sé e della depressione collettiva che ne deriva costituiscono per l’Occidente un pericolo superiore a tutti gli altri, interni o esterni, perché lo inducono a fargli perdere progressivamente le sue difese immunitarie. L’autoflagellazione che spinge a biasimare sistematicamente il proprio campo –presentato sempre come colpevole o malvagio per natura- e difendere quello avverso –adornato di tutte le virtù o presentato come vittima –sembra una vera guerra psicologica che viene combattuta contro la propria stessa collettività.» (p.22)


Tale patologia omologante, nello stesso tempo produce solitudine e difficoltà a rapportarsi agli altri, da cui la ricerca di rassicurazione nel pensiero unico imposto dai media, pur a loro volta screditati e non più credibili.


Il sottotitolo del libro Piccolo trattato di decolpevolizzazione esplicita invece l’obiettivo che si pone l’autore: parlare, conoscere i fatti, prendere coscienza del “complesso occidentale” serve di per sé a liberarsene, a smascherare il vischioso impasto di luoghi comuni, di buonismo e totalitarismo, d’ignoranza e supponenza, che ai vari livelli lo alimenta, e da parte di gruppi, lobbies, istituzioni, personaggi ben precisi, e come tali doverosamente contrastabili.


Pur essendo un testo del 2014 e riferendosi più direttamente alla situazione francese, non ha perso certo di pertinenza – e urgenza-, anzi; nel frattempo, l’induzione del “complesso” si è accentuata, ufficializzata, diventando obbligatoria, mentre il contrasto ad esso è bollato di vari “ismi” peggiorativi. Nondimeno, una resistenza anticonformista va emergendo anche nella politica, non foss’altro perché gli eventi stessi hanno messo a nudo gli interessi e gli scopi che stanno dietro alle retoriche del multiculturalismo e dell’accoglienza indiscriminata.


Chissà se oggi si verificherebbe l’episodio che Del Valle pone all’origine della sua decisione di scrivere il libro, quando ad una sua conferenza, un siciliano – di un’isola invasa per secoli da Arabi, Saraceni … – parlando del pericolo islamico, aveva detto: «Però anche noi abbiamo colonizzato, abbiamo fatto le Crociate, e siamo stati degli aggressori per secoli». Forse no.


Tra questo spunto originario e le conclusioni operative per la “decolpevolizzazione” c’è un ampio saggio di appassionante lettura, che tocca gli aspetti psicologici profondi, comportamentali, storici della costituzione del “complesso occidentale” verificandoli nei fatti e protagonisti, fino all’attualità. Un testo non riassumibile, la cui lettura, oltre ad essere “terapeutica”, fornisce una panoramica ed un’analisi delle varie specifiche componenti che alimentano, ciascuna ai propri fini, magari contraddittori tra di loro, «i miti del politicamente corretto».


Non è quindi un complotto che sta dietro all’induzione del complesso occidentale, sebbene vi sia un dato unificante nella negazione della verità, negazione costitutiva delle ideologie del ‘900, ma che oggi attraverso i media tecnologici produce un complesso artificiale, basato sul relativismo, il concettualismo, la destrutturazione della realtà e del linguaggio. Da qui l’instaurarsi, più che di teorie, di rappresentazioni, dalle grossolane falsificazioni fino alla fiction più sofisticata, quale quella per cui l’essenza europea starebbe proprio nel suo sradicamento, nella sua fluidità identitaria, nelle varie “morali laiche”, contenitori più possibile vuoti, neutri, da riempire con le nuove combinatorie dei sessi e quant’altro sul mercato.


Riflessioni a margine.


Viene da chiedersi per quali processi tale colpevolizzazione possa aver trovato in un passato recente una predisposizione, certo legata al disorientamento spirituale del secolo e ad una crisi di civiltà, ma specificatamente negativa e disperante. Secondo me, vi ha contribuito l’esportazione da parte della Germania e diluizione sull’Europa della colpa della Shoah, facendo di essa un evento metastorico e una responsabilità collettiva, che pertanto deve essere perennemente espiata. Si è costituito così un culto laico negativo basato sulla memoria dell’irrimediabile, senza speranza di perdono, e poi da parte di chi? «Se Dio ha permesso questo, dio non c’è».


Così, mentre sempre più vago nell’ignoranza generalizzata diventa il contesto storico del nazismo, la Shoah è celebrata come un unicum, che proietta nel passato un crescendo di orrori, e nel futuro un’oscura evenienza, una coazione a ripetere sempre in agguato nell’Occidente.


Le parallele e ben paragonabili colpe dei regimi comunisti sono invece percepite nella loro connotazione storica, e comunque hanno goduto per decenni della copertura e complicità dei partiti comunisti dell’Europa capitalista nonché delle élites intellettual-mondane; la Germania stessa, integrando la DDR, ha completato quel processo di risarcimento del passato che è una componente della sua egemonia europea, sostanzialmente indenne dallo stesso complesso occidentale.


È quindi su questa base psicologica che si sono via via innestati altri spezzoni di contraffazioni e banalizzazioni storiche delle “colpe dell’Occidente”, spacciate dai pessimi manuali scolastici, dalla propaganda interessata, dalle fictions, dalla divulgazione “culturale”, il tutto a sprezzo di ogni corretta metodologia storica e documentaria. Da questo coacervo difficilmente districabile, a cui molto contribuiscono i cascami della sinistra orfana delle ideologie della lotta di classe, emerge la linea anticristiana, autolesionistica e subalterna rispetto all’Islam.

Da qui il paradosso di un vertice della Chiesa cattolica che chiede continuamente perdono di pretese colpe della Chiesa con ciò stesso ratificando non solo il complesso occidentale, ma una lettura progressista della storia a cui si può essere ammessi solo rinnegandosi.


Del resto il semplice buon senso e buona fede – se vi fosse- farebbe capire che l’integrazione di altre componenti etniche si realizza nella pienezza identitaria di chi accoglie, e che il contrario è a dir poco controproducente; e che l’antisemitismo non è categoria dello spirito, ma fenomeno storico bel definito, e che dall’evocazione continua e banalizzazione di esso, proprio gli ebrei avrebbero a patire.


Un altro aspetto, che si avverte particolarmente in Italia, ove la tradizione artistica è elemento identitario indistinguibile da quello cattolico, è il processo di svalutazione-dissoluzione del patrimonio artistico nazionale sotto l’aggressione del sistema internazionale dell’Arte Contemporanea. Adottando in musei ed esposizioni criteri concettuali, estraendo le opere dal contesto di origine, spiritualità, significato, le si esibisce come prodotti di una pretesa dialettica tra il genio e le strutture del potere, per lo più identificato nella Chiesa cattolica. Anche in questo campo si costituisce pertanto una variante del complesso occidentale: l’arte del passato celerebbe dietro la sua bellezza l’intento oscurantista, propagandistico, di manipolazione delle coscienze, di sopraffazione, di simbolo del potere.


L’arte contemporanea concettuale, per parte sua, proclamata la fine dell’arte, si manifesta come espiazione collettiva, attraverso il brutto, l’idiota, l’osceno, il macabro ecc.., uniche categorie in cui l’uomo occidentale può rispecchiarsi, godendo masochisticamente di ciò che lo offende e lo disgusta. I musei e le mostre d’arte contemporanea diventano quindi un’altra sede del culto del rinnegamento di sé, contro l’istintivo senso umano del sacro e del bello, componente della civiltà occidentale fin dall’antichità. Il fatto che i vertici della Chiesa abbiano accolto tali tendenze architettoniche e artistiche, falsamente povere ed austere, corrisponde alla parallela museificazione, contaminazione e desacralizzazione – o peggio – degli edifici religiosi, del cui glorioso splendore sembra ci si debba vergognare e debba essere riscattato attraverso una concessione all’uso turistico e profano purchessia [1].



Un’altra componente va a parer mio a confluire nel complesso occidentale, indicando come la stessa “decolpevolizzazione” debba avere il suo punto di forza nella famiglia e in un’apertura coraggiosa alla vita. La colpevolizzazione dell’uomo occidentale è principalmente colpevolizzazione dell’uomo, nel quale il femminismo radicale ha individuato un principio di sopraffazione originario, che può essere superato solo attraverso uno smantellamento identitario e –più recentemente- con la negazione stessa dell’identità naturale. Di qui la negazione dell’identità femminile materna considerata una schiavitù biologica, nonché la distruzione del ruolo del padre, e quindi della famiglia. Le donne influenzate, più o meno coscientemente, da tale femminismo, ritenendosi a loro volta storicamente vittime dell’uomo, subiscono meno il complesso di colpevolizzazione, ma ne sono le migliori propagandiste, con maggiore aggressività e conformismo.


La continua autocritica, autosorveglianza, a cui dovrebbe accedere l’uomo, oltre ad essere ovviamente la causa di reazioni e comportamenti opposti, fa confluire nel complesso occidentale la doppia colpa di una “storia fatta dagli uomini”.


E anche in questo caso si assiste all’eterogenesi dei fini, per cui l’ideologizzazione emancipazionistica distruttiva diventa suicida, e dà spazio proprio al modello islamico, che si fa forte della sua fissità gerarchica dei sessi e dei ruoli.



[1] Quasi 10 anni fa, ci si trovava a fare simili considerazioni i in riferimento all’esito di un referendum nella Confederazione Elvetica risultato contrario alla costruzione di nuovi minareti. Gli elementi della questione erano già allora tutti evidenti. Cfr. «Orgoglio svizzero» e «Minareti e campanili» in Il Covile n.558 4/12/2009.

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